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RICORDI
Le giovanili illusioni e la cruda realtà
Antonio Grosso sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


medaglia d'oro
Roma 1942. Antonio Grosso, marinaretto quindicenne, riceve dal Re la medaglia d'oro conferita alla
memoria del padre Umberto deceduto nel corso della battaglia navale di Capo Matapan

Ricordare, alla mia età, fatti e avvenimenti di molti anni prima è come osservarli attraverso un binocolo rovesciato. Alcuni fatti, forse i più significativi, sono ben definiti, altri un po' più sfocati altri ancora parzialmente velati dal tempo quasi in un alone di leggenda.
L'età, in ogni caso, porta a ricordare con maggior nitore fatti e situazioni che hanno influito sensibilmente e in alcuni casi segnato perennemente la mia vita.
Sono nato il primo gennaio 1927 in una base della Regia Marina nel porto di Taranto. Mio padre era nato a Pinerolo (Torino) da una famiglia di lontane origini nizzarde. Giovanissimo entrò in Marina e durante una permanenza a Venezia conobbe e sposò mia madre.
Come spesso accade alle famiglie dei militari i trasferimenti sono molto frequenti, spesso dal Nord al Sud e viceversa.
Conservo un ricordo bellissimo degli anni della fanciullezza da 1934 al 1938 in una batteria costiera della Marina a Nord di Brindisi comandata da mio padre, attigua ad una lunga pineta costeggiata da una bianchissima spiaggia e dove la mia vita trascorreva in totale libertà, quasi selvaggia.
Finalmente nel 1938 ci trasferiamo a Livorno di fronte all'Accademia Navale dove mio padre era istruttore degli allievi; Livorno era allora una città bellissima, gente sincera e passionale, là continuai i miei studi ginnasiali con buon profitto ed ebbi la prima esperienza del "sabato fascista" che vissi con molta curiosità ed interesse soprattutto per le attività marinaresche, nuoto, canottaggio, vela. Non mancavano l'arte militare e le manifestazioni ginniche.
Ormai avevo compiuto dodici anni. A scuola alcuni professori, nell'ora di storia accennavano alla presenza di partiti politici prima dell'avvento del fascismo e la mia curiosità mi portò a soffermarmi con interesse sul significato di pluralismo politico. Ricordo di aver chiesto a mio padre quali fossero le sue idee politiche e la risposta fu molto riservata nel confessarmi la sua origine liberalgiolittiana; per i militari era fatto divieto di appartenenza a partiti politici. La Marina Militare era molto fredda nei confronti del fascismo e la mia vita trascorsa in quell'ambiente mi teneva lontano da ambienti fanatici.
Nel '39 partecipai ad una manifestazione studentesca inneggiando all'intervento dell'Italia in guerra. Ricordo una frase di alcuni anziani che, non troppo sommessamente, suggerivano di lasciar perdere: "La guerra è cosa da grandi, andate a casa". Qualche anno dopo mi resi conto della veridicità di quelle parole.

Nel 1940 eravamo una famiglia felice io ero il primo di cinque figli e la vita trascorreva serenamente.
Il 10 giugno di quell'anno, il giorno della festa della Marina, scoppiò la guerra. Ricordo benissimo, mio padre tornò a casa alle diciotto per ascoltare dalla nostra "Radiomarelli" la voce di Mussolini con la dichiarazione di guerra. Iniziò in quel momento una svolta, in alcuni casi drammatica, della mia vita e della mia famiglia.
Un mese dopo mio padre fu imbarcato come ufficiale addetto alle artiglierie di bordo sull'incrociatore Zara (dodicimila tonnellate e circa mille persone d'equipaggio).
Il 15 agosto nasceva il sesto figlio che mio padre non vedrà mai.
La notte tra il 28 e il 29 marzo 1941, nella tragica battaglia di Capo Matapan, moriva, in azione volontaria, per autoaffondare la nave colpita e ormai immobilizzata. Per questo meritò la Medaglia d'Oro al valor militare che mi fu consegnata, sull'Altare della Patria, da Vittorio Emanuele III°.
La mia famiglia si trasferì definitivamente a Venezia.
Nello stesso anno entrai nel Collegio Navale di Brindisi, non essendovi posti disponibili in quello di Venezia.
Il Comandante era un ufficiale di marina, il Vice un ufficiale della milizia che si interessava quasi esclusivamente delle attività ginnico-sportive. Brindisi nel '42/'43 subì molti bombardamenti e tralascio gli episodi drammatici dopo un attacco durato otto ore.
Nell'aprile del '43 era ormai imminente lo sbarco degli Alleati in Sicilia e riuscii ad ottenere il trasferimento al Collegio Navale di Venezia riunendomi così alla famiglia. I miei già attraversavano un brutto momento, scarseggiavano i viveri, il pane e molti altri alimenti erano razionati. Fortunatamente la città non subiva bombardamenti; la guerra mostrava ormai i lati più duri e inumani.
E venne il 25 luglio '43 e la caduta del fascismo. Fu subito festa con la gioia di tutti, si percepiva immediatamente un'aria nuova, come l'inizio di una nuova Era. Avevo sedici anni e una gran voglia di vivere, ma tutto si ruppe troppo presto e fu l'otto settembre, un segno indelebile nella mia vita lasciando un ricordo perenne negli anni successivi.
Vi fu subito un totale sbandamento, tutti pensavamo fosse, finalmente, finita la guerra e sognavamo un mondo migliore. Fu invece l'inizio di due anni tormentati da riflessioni e valutazioni "politiche" senza averne alcuna preparazione culturale. Scelsi la ricerca logica "istituzionale" considerando il Governo Badoglio l'unico rappresentante l'Italia. Scoprii, benpresto, che molti compagni non condividevano queste idee e le discussioni furono molto accese.
Il 13 ottobre '43 l'Italia dichiara guerra alla Germania e gli Alleati ne accettano la cobelligeranza.
Nel frattempo alcuni compagni più anziani, trasferitisi a Brindisi, si arruolarono volontari nel primo raggruppamento dell'Esercito italiano che combattè a fianco degli Alleati, nel 151° Battaglione Bersaglieri del 67° Reggimento composto da giovani tra i 17 e i 20 anni e furono inviati al fronte. All'alba dell'8 dicembre '43, nel tentativo di conquistare Monte Lungo, morirono in cinque.
Il 10 dicembre, nei territori occupati dai Tedeschi in Italia, si costituisce la Repubblica Sociale Italiana.
Altri miei compagni si arruolarono nella Decima Mas per combattere a fianco dei Tedeschi. Molti di noi restammo ancora in Collegio. In questa indescrivibile atmosfera con alcuni amici facemmo la scelta coerente anche nella certezza che il nemico da battere fosse il nazi-fascismo. Si manifestò presto la delazione. Così una sera di febbraio del '44 fummo espulsi dal Collegio Navale con l'accusa di connivenza con i "ribelli" e deferiti a un Tribunale speciale.
Nella primavera di quell'anno mi ammalai molto gravemente e trascorsi alcuni mesi a Valdobbiadene, località oggi nota per il prosecco e il Cartizze, dove conobbi molti ex militari che, cercando di organizzarsi, vivevano alla macchia fra stenti e paure a causa dei primi rastrellamenti fascisti. Tornato a Venezia ripresi gli studi liceali.
Ormai la RSI alleata dei nazisti mostrava la vera faccia del fascismo. La vita per noi giovani era assai precaria, spesso frequenti rastrellamenti cittadini consigliavano cercare rifugi sicuri.
Gli ultimi mesi del '44 i tedeschi della TODT arruolavano giovani anche quattordicenni prelevati per strada obbligandoli a scavare trincee tra Marghera e Mestre sorvegliati dai militari.
Nello stesso periodo molti giovani diciottenni, per evitare l'arruolamento di leva, cercavano "rifugio" nella polizia ausiliaria. La mia salute era, frattanto, migliorata.
Il primo gennaio 1945 compivo diciotto anni, incombeva anche per me il tempo del servizio di leva. Nel frattempo il deferimento al Tribunale speciale per i miei precedenti veniva rinviato. Tramite amicizie di mia madre fui presentato al Questore di Venezia e nello spazio di trenta minuti fui arruolato nella Polizia dopo una battuta: "Penso, non avrà certo intenzione di fare carriera in questa Amministrazione!". L'unica "arma" in possesso era una fascia bianca al braccio con la scritta polizia, sull'abito borghese, con l'incarico prevalente di governare le code di cittadini che in piazzale Roma attendevano quei pochi filobus per recarsi a Marghera e Mestre.
Ormai gli alleati erano a pochi chilometri da Venezia e il 25 aprile le prime camionette arrivarono in piazzale Roma. Scoprii subito che tutti i miei superiori avevano contatti con i partigiani e in quei giorni di totale confusione assistetti ad episodi di gioia e balli nei campi e per le calli ma anche ad altri che oggi parrebbero comici; un mattino, mi presento al Commissariato per ricevere ordini e mi trovo dinanzi un aitante giovanotto in una sgargiante divisa garibaldina che distribuiva ordini a tutti e tutti chiamavano comandante Franco il partigiano. Il mio compito era di guidare un drappello di partigiani a prelevare cittadini da loro conosciuti come fascisti e consegnarli alla caserma dei carabinieri che nel frattempo erano riapparsi dall'ombra. Dopo due giorni torno al Commissariato e chiedo del comandante Franco e resto allibito alla notizia che era stato arrestato perché fascista. In quei giorni casi simili furono molto frequenti.
I primi giorni di maggio cominciarono i primi processi ai fascisti più noti; i primi condannati a morte? Furono Pepi, Zani e Cafiero e furono fucilati al Lido, erano noti in città e furono accusati di torture e sevizie ma furono anche le uniche esecuzioni.
Nei giorni successivi ebbi l'incarico di tradurre dal carcere di Santa Maria Maggiore al Tribunale molti detenuti politici ed assistere ai processi. Fra i primi il Questore, lo stesso che mi aveva assunto pochi mesi prima, il Prefetto e altri fra i quali il padre di un mio amico, accusato di appartenere all'OVRA. Furono tutti condannati a morte e pochi mesi dopo la sentenza venne tramutata in ergastolo e più tardi probabilmente condonata.
I miei studi, nel frattempo, erano fermi e lontani dai miei pensieri, l'ipotesi della mia vita nella polizia era altrettanto lontana. Perciò con molte difficoltà e numerosi certificati medici riuscii a tornare "civile".
Ritornai così, in agosto, ancora un volta a Valdobbiadene che nel frattempo era tornata ad essere una ridente e serena cittadina, ripresi privatamente gli studi e l'anno successivo conseguii, finalmente, la maturità.
Tornato a Venezia mi appassionai al dibattito politico che si faceva sempre più acceso, ricordo i comizi di Ugo La Malfa e di Riccardo Lombardi, i primi numeri dell'Espresso e poi del "Mondo" di Mario Pannunzio, nacque e si concretizzo così la mia convinzione laica della politica e mi fu possibile partecipare alla creazione della democrazia nel mio Paese.
Il resto è attualità ed è tanto poterlo raccontare. Per molti sarà difficile capire.
In questo, seppur rapido, excursus della mia vita non posso non ricordare con tutto il mio affetto la figura di mia madre. Donna di coraggio e di saggezza, di amore e di fermezza. Vedova a quarantatre anni, con sei figli, ebbe la capacità, attraverso innumerevoli stenti e sofferenze, ma sempre con la speranza, di traghettare la famiglia in un mondo sereno e di benessere.

Antonio Grosso


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 22 febbraio 2003